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Edizioni e/o ripropone il quarto romanzo di Joan Didion, pubblicato originariamente nel 1984. In Democracy si notano alcune somiglianze con il precedente Diglielo da parte mia. Viene ripreso il setting esotico (questa volta Kuala Lumpur e Honolulu), ma soprattutto la rappresentazione di una protagonista femminile, Inez, che si dibatte tra le maglie di una famiglia soffocante nella sua imponenza.
Joan Didion è voce narrante e personaggio del romanzo, con l’ipotetico intento di dare all’opera il sapore della non-fiction. Democracy assume così i toni di un falso New Journalism, oltre a quelli della metaletteratura. Ma l’espediente in sé non cambia in modo essenziale la calibratura del libro. L’esplorazione si svolge attorno a Inez, alla sua provenienza da una famiglia colonialista e al suo ruolo marginale nella vita politica del marito, senatore statunitense candidato alle primarie. La fine del conflitto in Vietnam fa da sfondo, contornato dal rapporto di Inez con quello che probabilmente è un agente della C.I.A.
La storia si dipana in modo volutamente frammentario tra gli U.S.A., l’Asia e il Pacifico, in un cosmo dove i personaggi si muovono come spettri. Come in Henry James, che il romanzo cita esplicitamente (“osserva il quadro. Trova la belva nella giungla, la figura nel tappeto”, p. 186), il vero motore è un’assenza che determina tutto. L’assenza in questo caso è “la ragione per cui”, il filo conduttore che tiene insieme le tragedie personali di personaggi che si prestano svogliatamente a fare da contrappunto alla Storia della loro nazione (anch’essa in un certo senso assente, almeno da un punto di vista geografico).
Il romanzo si permea di una caligine che mantiene sospesa la realtà; ma è purtroppo questa sua caratteristica a renderlo in un certo senso inconsistente. Laddove i precedenti Diglielo da parte mia e Prendila così spiccavano per l’elaborazione di struttura e prosa, cesellate così abilmente da nascondere la propria complessità, Democracy non riesce ad essere altrettanto incisivo. Si ferma un passo prima, e la sua materia più grezza ricorda ancora le altre opere, ma senza possederne la medesima urgenza.
Joan Didion è voce narrante e personaggio del romanzo, con l’ipotetico intento di dare all’opera il sapore della non-fiction. Democracy assume così i toni di un falso New Journalism, oltre a quelli della metaletteratura. Ma l’espediente in sé non cambia in modo essenziale la calibratura del libro. L’esplorazione si svolge attorno a Inez, alla sua provenienza da una famiglia colonialista e al suo ruolo marginale nella vita politica del marito, senatore statunitense candidato alle primarie. La fine del conflitto in Vietnam fa da sfondo, contornato dal rapporto di Inez con quello che probabilmente è un agente della C.I.A.
La storia si dipana in modo volutamente frammentario tra gli U.S.A., l’Asia e il Pacifico, in un cosmo dove i personaggi si muovono come spettri. Come in Henry James, che il romanzo cita esplicitamente (“osserva il quadro. Trova la belva nella giungla, la figura nel tappeto”, p. 186), il vero motore è un’assenza che determina tutto. L’assenza in questo caso è “la ragione per cui”, il filo conduttore che tiene insieme le tragedie personali di personaggi che si prestano svogliatamente a fare da contrappunto alla Storia della loro nazione (anch’essa in un certo senso assente, almeno da un punto di vista geografico).
Il romanzo si permea di una caligine che mantiene sospesa la realtà; ma è purtroppo questa sua caratteristica a renderlo in un certo senso inconsistente. Laddove i precedenti Diglielo da parte mia e Prendila così spiccavano per l’elaborazione di struttura e prosa, cesellate così abilmente da nascondere la propria complessità, Democracy non riesce ad essere altrettanto incisivo. Si ferma un passo prima, e la sua materia più grezza ricorda ancora le altre opere, ma senza possederne la medesima urgenza.