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Ragazza, donna, altro by Bernardine Evaristo
2.0

Premessa – Quello che sto cercando di fare con questa recensione è spiegare/spiegarmi perché tra me e questo libro non sia scattata la scintilla. C’è un po’ di analisi, un po’ di sopracciglia corrucciate e qualche “whaat?”.

Disappunto credo sia la parola migliore per descrivere come mi ha lasciata un libro che, visto il tema e il generale amore ricevuto, aspettavo dal 2019. Ero stata immediatamente catturata dall’idea di un coro polifonico di donne nere, una fotografia finalmente onesta, inclusiva e rappresentativa della Gran Bretagna. Poi è arrivato il Booker Prize. E poi gli entusiasti lettori italiani (la traduzione è arrivata nel 2020), lettori dei quali mi fido tantissimo, tra l’altro. Quindi, cosa è andato storto nel mio caso?

Ragazza, Donna, Altro racconta le storie di 12 personaggi, principalmente donne nere inglesi di diverse età, le cui vite si incrociano durante la prima di uno spettacolo teatrale scritto e diretto da Amma, sceneggiatrice di teatro nera e lesbica. Dei personaggi conosciamo origini, traumi e successi e pietre miliari che ci conducono al “gran finale”: un dolce ma prevedibile plot twist. Sono storie che vorrebbero celebrare la forza, l’intelligenza e l’indipendenza di queste donne, soprattutto in contrasto con la fortissima sottorappresentazione che hanno avuto come autrici e protagoniste dell’industria culturale britannica. Ma se l’intenzione è ammirevole e più che condivisibile, il risultato…non ha la stessa forza dell’ambizione.

I ritratti che mi aspettavo sinceri, sconvolgenti e pronti ad aprirmi finestre su mondi che non conosco, si sono rivelati molto più superficiali e prevedibili di quanto sperato. Ho letto il libro in italiano e credo che Martina Testa abbia fatto un lavoro straordinario. I problemi con la struttura e la credibilità dei personaggi stanno infatti nella penna di Evaristo, a mio avviso.
Tutti i personaggi vengono fuori come schizzi. Sono canovacci che finiscono con il raccontare più dei “tipi” che delle persone. Sono funzionali alle argomentazioni di Evaristo su come dovrebbe essere una società più inclusiva, ma questo toglie loro tridimensionalità. Cerco di spiegarmi meglio: tolti gli eventi, diversi per necessità narrativa, i personaggi sentono, pensano e si comportano nello modo nonostante le esperienze, le visioni politiche e i background siano inconciliabili. La scenografa attivista lesbica e la novantenne possidente terriera sono intercambiabili a livello di personalità, insicurezze e motivazioni (principalmente, l’indipendenza). Sono due donne forti e appassionate, il cui tratto caratteristico è quello di essere forti e appassionate. Che andrebbe anche bene, se questa cosa non fosse stata ripetuta per altre 12 storie. Certo, gestire così tanti personaggi non è semplice, ma credo che il problema sia più ampio. Alcuni dialoghi, ad esempio, sembrano arrivare da un’intervista di Internazionale o da un saggio breve:

“Dovremmo essere contente se oggi tante altre donne stanno ridisegnando il femminismo, se l’attivismo locale si sta diffondendo a macchia d’olio e milioni di donne stanno scoprendo la possibilità di impadronirsi del mondo come esseri umani a pieno titolo
come si fa a non essere d’accordo?”

E per quanto non ci sia una singola parola con la quale io non sia d’accordo, ho difficoltà a percepire come realistico che due amiche femministe di cinquant’anni discutano così dopo essersi fatte quattro strisce di coca e due bottiglie di vino alle 4 di mattina. Non sto dicendo che non possa accadere nella realtà, ma l’ecosistema del libro lo rende un’argomentazione, non un dialogo.

Quasi tutti i personaggi hanno uno “statement” programmatico (che fa trasparire la scrittrice, e quando uno scrittore si vede troppo c’è qualcosa che non va), ma per non spoilerarvi tutto parlo di Yazz, l’assolutamente non realistica rappresentazione della quota Gen Z del romanzo. Yazz è woke, Yazz non ha niente da giustificare a nessuno, Yazz è battagliera. Yazz è una dura. Ma soprattutto, è Yazz a dire queste cose di stessa a se stessa. Cos’è successo al buon vecchio “show, don’t tell”? Autodefinirsi come “duri” non è il modo più semplice per non esserlo? E di nuovo, una giovane donna dal carattere battagliero ha il 99% delle probabilità di diventare un personaggio che adoro. Ma raccontarla così la rende solo un altro argomento per il saggio breve di Evaristo. E sicuramente Yazz vuole essere un personaggio complesso, ma non credo che Evaristo riesca a trasmetterlo con passaggi come questo:

“Yazz nella sua stanza dello studentato ha un enorme poster
di Jimi Hendrix con quei capelli assurdi, la fascia hippy, il
petto scolpito, il pacco bene in vista e la chitarra elettrica
simbolo culturale eloquente che fa capire subito a quelli
che entrano con che tipa tosta hanno a che fare”

soprattutto se sono alternati a questo:
“la sua stanza è la più grande del corridoio, per via della grave
forma di claustrofobia e di fobia sociale che ha
millantato per ottenerla”

oppure:
“le sue fidanzatine du jour, per dirla come papà (certo, perché
parlare inglese quando puoi parlare francese)
sono due donne bianche, Dolores e Jackie, anche se
mamma è stata a letto con qualunque etnia nota
all’umanità (si chiama troiaggine multietnica)” (dire questo di tua madre conta come slutshaming?)

Direte voi, è un personaggio complesso. Peccato che sia anche l’unico personaggio sotto i vent’anni e che il suo sogno sia quello di scrivere, occuparsi di cultura e diventare un’attivista. Perché è qui il problema: i conflitti sono credibili quando si indicano bene le cause, e per indicare bene le cause c’è bisogno di tempo. Sapere velocemente che Yazz si è sentita “abbandonata” dai suoi genitori perché inseguivano le loro carriere dà qualche coordinata, ma non è sufficiente a comprendere tutto questo astio.

È con la stessa velocità e superficialità che scopriamo che Hattie, per 1/4 nera e sposata con un afroamericano, ha votato UKIP alle ultime elezioni e Leave per la Brexit. Lo ha fatto perché è un’anziana campagnola un po’ conservatrice nell’anima? O perché l’UE le ha rifiutato i fondi quando “ha visto che c’era lei a capo della baracca”? (frase non ulteriormente esplorata nel libro). Non abbiamo approfondimenti, solo statement. Quindi se questi dettagli avevano l’obiettivo di rendere i personaggi complessi finiscono per renderli incoerenti o con una logica interna carente. Ecco, ricordano un’equazione della quale abbiamo saltato un passaggio.

Questa fretta colpisce anche il modo in cui i personaggi affrontano i traumi, come hanno evidenziato anche altre recensioni. Stupro, tossicodipendenza e depressione post-partum vengono superate grazie a una forza di volontà sovrumana. Non c’è bisogno di aiuto professionale né di comunità di supporto. Anzi, nonostante sia la parola “insieme” a chiudere il libro, i protagonisti affrontano il mondo, e tutte le schifezze che porta nelle loro vita, principalmente da soli. Solo nelle storie di Dominique e Shirley vediamo l’aiuto di una comunità di donne, o di una donna, disinteressato e profondo. Non è un caso che siano le storie più riuscite, secondo me.

Come riuscito ho trovato anche lo stile. Le frasi spezzate, la mancanza di punteggiatura a chiusura periodo e gli “a capo” significativi hanno aggiunto dramma e tensione al testo. Hanno reso bene la differenza tra i monologhi/flussi di coscienza e i punti più narrativi. È un esperimento andato a buon fine e, in sostanza, il motivo per cui voglio leggere qualcos’altro di Evaristo.

Ho cercato di spiegare cosa non è andato per me in questo libro, e credo ci sia stato per Evaristo un glitch tra struttura e temi. Ma il suo mondo è gigantesco e voglio davvero vedere cosa il suo stile può raggiungere. In più, sono assolutamente convinta che si debba continuare a raccontare queste storie. A prescindere da tutti, recensioni su goodreads comprese :-)