A review by deepfede
Il rap spiegato ai bianchi by David Foster Wallace

3.0

Le scritture di Wallace e Costello si alternano, si fanno l'occhiolino e danno perfettamente l'idea di come sia vivere in quell'appartamento di Boston nell'89 riportandoti a un falso ricordo, quello di ascoltare veramente con i due i NWA, Ice-T, Schoolly D, KRS-One, i Public Enemy, ecc.

Come negli altri libri di DFW la genialità non manca, con spunti interessanti e aneddoti assurdi condivisi anche da Mark Costello, che scrive similmente al coinquilino con le tanto amate note a piè di pagina più spassose del libro stesso.
Tuttavia si soffre tanto il non detto, la parte mancante.

Nel primo capitolo scritto da Wallace viene posta la domanda fondamentale: “Con che faccia due yuppie bianchi cercano di scrivere un saggio sul rap?”
La risposta viene esplicitata nel capitolo 3, sempre a opera di Wallace, che spiega perfettamente come la penso anch’io.
Chiunque può scrivere saggi sugli argomenti che più si vuole trattare, ma, e forse è qui che invecchia male il saggio, mi sembra quasi assurdo che per tutto il saggio D e M dicano di aver frequentato molti ambienti dove poi è nato il rap che tanto amano per poi non veder coinvolto nessun artista o persona appartenente alla sottocultura che ha fondato il rap vero e proprio. Due pagine dopo essersi posto la domanda, Wallace riporta una definizione del genere di una rivista dell’ambiente musicale: “il rap è la più innovativa e pura forma di espressione dei neri dal jazz delle origini a oggi”.
Eppure non si vede mai un’intervista, una conversazione, un’opinione su un tema ad opera di una POC.
Un gran peccato, visto anche il titolo (in originale "Rap and Race in the Urban present") che rimanda alla questione etnica.