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blackjessamine 's review for:
Le otto montagne
by Paolo Cognetti
Ho opinioni piuttosto confuse, riguardo a questo libro.
Ho letto la prima metà un po' arrancando, alternando stati in cui non potevo non riconoscere una certa padronanza della materia letteraria a Paolo Cognetti, ad altri in cui l'unica cosa che provavo era una grande, immensa noia. Sarà che il fascino della montagna non l'ho mai provato, sarà che ho ricordi terribili delle gite domenicali con l'escursionismo giovanile del CAI, fatte di levatacce quando avrei preferito dormire, vesciche ai piedi, mal di schiena e brutte cadute. Sarà che, se proprio in montagna ci devo andare, sono un po' come la mamma di Pietro, per me la montagna si ferma ai millecinquecento metri. Sarà che l'unica volta che mi sono trovata a posare il rampone su un ghiacciaio m'è venuto un mezzo attacco di panico, ho mandato a quel paese tutti e me ne sono rimasta tutto il giorno in rifugio. Sarà che anche i miei si sono conosciuti in montagna, e mia madre quando ero piccola, mentre mi asciugava i capelli, mi cantava della Grigna e di tutti i suoi innamorati trafitti da una freccia in fronte (questo, o Bocca di rosa : a distanza di vent'anni mi sto ancora chiedendo perché), ma tutto il mio vissuto evocato da queste pagine mi ha gettato, più che in uno stato di malinconia e nostalgia, in un turbinio di irritazione e nervosismo.
La seconda metà, invece, è scivolata via in una nottata. Eppure, ripensandoci con un po' di razionalità, mi rendo anche conto che la seconda parte è proprio quella più debole: la trama si fa un po' scontata e prevedibile - e pure un po' assurda - si perde il mordente e l'interesse per il rapporto padre-figlio, che invece caratterizzava in maniera molto sentita la prima parte. Andiamo, davvero era necessario ficcarci dentro pure il Nepal e l'Himalaya? Così, senza approfondire, appiccicandole sullo sfondo, perché ci sta sempre bene che un personaggio vada a cercare sé stesso sulla Dimora delle Nevi.
Per quanto il rapporto fra Pietro e suo padre, un rapporto fatto di troppi silenzi e di rancori mai risolti, sia dipinto con molta onestà, non sono rimasta altrettanto colpita da quello fra Pietro e il suo amico Bruno. Forse perché Bruno non è un personaggio, ma è una sagoma intuibile in poche parole. Bruno è il montanaro, quello che in una giornata non sa dire più di tre parole, quello che non potrebbe vivere in un posto che non sia il suo alpeggio. Punto. Non c'è nient'altro, nessuna caratterizzazione, nessun approfondimento. Come si fa a costruire un rapporto con un personaggio che non è un personaggio, ma un'etichetta?
Non so, ho apprezzato, in certa misura, la conoscenza della montagna di cui Cognetti si fregia, anche se in alcuni punti mi è più che altro sembrato che lui volesse a tutti i costi fare sfoggio del suo bagaglio, della sua conoscenza: in alcuni passaggi si parla di montagna e di quello che concerne la montagna non per esigenze di trama, ma sembra quasi che alcuni brani siano messi lì proprio per dare la possibilità all'autore di far vedere quante ne sa. Penso ad esempio alla scena della costruzione della casa (per un attimo ho temuto davvero che Bruno si lanciasse in una minuziosa descrizione dei calcoli del peso della neve su un tetto) o la descrizione, lunghissima, grafica, noiosissima, della macellazione del daino.
Tutto sommato un libro discreto, che si lascia leggere in un paio di giorni senza troppe difficoltà, ma che svanisce altrettanto rapidamente.
Credo che la scrittura di Cognetti sia decisamente più efficace ed incisiva nelle brevi distanze.
Ho letto la prima metà un po' arrancando, alternando stati in cui non potevo non riconoscere una certa padronanza della materia letteraria a Paolo Cognetti, ad altri in cui l'unica cosa che provavo era una grande, immensa noia. Sarà che il fascino della montagna non l'ho mai provato, sarà che ho ricordi terribili delle gite domenicali con l'escursionismo giovanile del CAI, fatte di levatacce quando avrei preferito dormire, vesciche ai piedi, mal di schiena e brutte cadute. Sarà che, se proprio in montagna ci devo andare, sono un po' come la mamma di Pietro, per me la montagna si ferma ai millecinquecento metri. Sarà che l'unica volta che mi sono trovata a posare il rampone su un ghiacciaio m'è venuto un mezzo attacco di panico, ho mandato a quel paese tutti e me ne sono rimasta tutto il giorno in rifugio. Sarà che anche i miei si sono conosciuti in montagna, e mia madre quando ero piccola, mentre mi asciugava i capelli, mi cantava della Grigna e di tutti i suoi innamorati trafitti da una freccia in fronte (questo, o Bocca di rosa : a distanza di vent'anni mi sto ancora chiedendo perché), ma tutto il mio vissuto evocato da queste pagine mi ha gettato, più che in uno stato di malinconia e nostalgia, in un turbinio di irritazione e nervosismo.
La seconda metà, invece, è scivolata via in una nottata. Eppure, ripensandoci con un po' di razionalità, mi rendo anche conto che la seconda parte è proprio quella più debole: la trama si fa un po' scontata e prevedibile - e pure un po' assurda - si perde il mordente e l'interesse per il rapporto padre-figlio, che invece caratterizzava in maniera molto sentita la prima parte. Andiamo, davvero era necessario ficcarci dentro pure il Nepal e l'Himalaya? Così, senza approfondire, appiccicandole sullo sfondo, perché ci sta sempre bene che un personaggio vada a cercare sé stesso sulla Dimora delle Nevi.
Per quanto il rapporto fra Pietro e suo padre, un rapporto fatto di troppi silenzi e di rancori mai risolti, sia dipinto con molta onestà, non sono rimasta altrettanto colpita da quello fra Pietro e il suo amico Bruno. Forse perché Bruno non è un personaggio, ma è una sagoma intuibile in poche parole. Bruno è il montanaro, quello che in una giornata non sa dire più di tre parole, quello che non potrebbe vivere in un posto che non sia il suo alpeggio. Punto. Non c'è nient'altro, nessuna caratterizzazione, nessun approfondimento. Come si fa a costruire un rapporto con un personaggio che non è un personaggio, ma un'etichetta?
Non so, ho apprezzato, in certa misura, la conoscenza della montagna di cui Cognetti si fregia, anche se in alcuni punti mi è più che altro sembrato che lui volesse a tutti i costi fare sfoggio del suo bagaglio, della sua conoscenza: in alcuni passaggi si parla di montagna e di quello che concerne la montagna non per esigenze di trama, ma sembra quasi che alcuni brani siano messi lì proprio per dare la possibilità all'autore di far vedere quante ne sa. Penso ad esempio alla scena della costruzione della casa (per un attimo ho temuto davvero che Bruno si lanciasse in una minuziosa descrizione dei calcoli del peso della neve su un tetto) o la descrizione, lunghissima, grafica, noiosissima, della macellazione del daino.
Tutto sommato un libro discreto, che si lascia leggere in un paio di giorni senza troppe difficoltà, ma che svanisce altrettanto rapidamente.
Credo che la scrittura di Cognetti sia decisamente più efficace ed incisiva nelle brevi distanze.