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A review by ozu_teapot
Nessun luogo. Da nessuna parte by Christa Wolf
4.0
Nessun luogo. Da nessuna parte ha origine da un drammatico distacco. 1976, il cantautore e poeta Wolf Biermann, che aveva già vita dura come artista nel paese per via del suo manifesto pensiero politico dissidente, viene privato della cittadinanza ed esiliato dalla Repubblica Democratica Tedesca. Christa Wolf ed altri intellettuali protestano con un'aperta lettera al governo, censurata in patria. La scrittrice viene radiata dall'Unione degli scrittori e da lì inizia un periodo di isolamento, di sradicamento. Si tratta di un distacco forzato, che, però, si carica sempre più, da questo prima rielaborazione e passando per [b:Cassandra|9649489|Cassandra|Christa Wolf|https://i.gr-assets.com/images/S/compressed.photo.goodreads.com/books/1319530562l/9649489._SY75_.jpg|55411127] e [b:Medea: Voci|13603307|Medea Voci|Christa Wolf|https://i.gr-assets.com/images/S/compressed.photo.goodreads.com/books/1334510610l/13603307._SY75_.jpg|148159] per una rielaborazione di fitto valore letterario: è quel ritorno al passato, ai classici, che non è soltanto un (intelligentissimo) omaggio alla cultura e alla letteratura, non è narrativa storica puramente descrittiva e avulsa da implicazioni personali. Anzi, è una rielaborazione di sé, del proprio stato e del proprio contesto socio-politico. Si sente, nello scivolare dell'autrice nell'interiorià di Heinrich von Kleist e la poetessa Karoline von Günderrode, una ferita aperta e sanguinante. Wolf immagina un loro incontro nell'estate del 1804, sulle rive del Reno, in un salotto dove si riuniscono personaggi illustri del loro tempo.
Se Wordsworth diceva che la poesia è "lo spontaneo straripamento di potenti sensazioni", Kleist e Günderrode sono due autentici argini che si contengono a stento. Come Cassandra, son due voci imbavagliate, due voci che nel tentativo di una profonda fedeltà al proprio sentire non possono che essere dissonanti nel coro del mondo. Da una parte c'è l'ordine del mondo, dall'altra le irregolarità, le lancinanti disarmonie del proprio mondo interiore. Da una parte c'è il classico Goethe: colui che dopo Werther ripudia gli eccessi romantici per un culto estetico delle passioni controllate, ricercando proprio l'armonia di eredità greca; e colui che aveva testimoniato per sé stesso, tramite una miniera posseduta, di poter essere poeta, ma di poter guardare anche a un vantaggioso sostentamento economico. Dall'altra c'è Kleist, senza incarico, in aperto conflitto politico, e che non poteva rintracciare in sé alcuna pace, pur cercandola in lungo e in largo.
"Altri pretendono conoscere un modo di pensare in modo incruento. Armonia, moderazione, indulgenza. Kleist, per quanto strenuamente si sforzi, non penetra nella vita profonda di queste parole. Consumato da un desiderio struggente, mi muovo nella loro ombra".
Così scrive Wolf, abbracciando le loro aspre irregolarità con uno stile che passa da una frase all'altra dal punto di vista esterno della terza persona ai recessi dell'io in prima. Kleist, guardandosi dentro, non può riconoscere alcun rassicurante ordine, nessuna gloriosa fermezza, ma - anticipando Freud - il caos, l'abisso. Tuttavia la potestà quasi fiera è su se stessi, in balìa di un mondo dove niente delle proprie speranze, dei propri ideali sembra attecchire davvero. Non c'è stata corrispondenza tra gli ideali della rivoluzione francese, di uno Stato diverso e l'approdo al governo napoleonico. Non c'è accordo tra l'arbitrio statale, che segue il denaro e integra anche l'arte secondo tale convenienza, e un'arte estremamente gelosa della più profonda, incondizionata espressione di sé (echeggia, appunto, la situazione della Wolf). La verità è la verità emotiva, provata ogni giorno nella lotta con sé stessi, con i propri moti, le proprie aspirazioni e le proprie impotenze. La sfida è poter esprimere tutto questo: l'apoteosi artistica o il fallimento. Lo sa lo stesso Kleist wolfiano, quell'insoddisfazione che potrebbe farlo "perire di miseria terrena" è la sua parte migliore, e così anche Günderrode: "quel che m’uccide, partorirlo" (verso reale della poetessa). Tuttavia la società, lo sfondo sulle rive del Reno che circonda i due poeti, è il fare buon viso a cattivo gioco, i due poeti mimano il tacito imperativo sociale, ovvero contenersi, se non proprio tacere, silenziare la nota dissonante. Evitare imbarazzi, evitare la costante incomprensione, i momenti di incomunicabilità umana che i due hanno sentito anche troppe volte. L'esterno e l'interno sono due isole, forse. Ma è un gioco provato con tanti falli, le due personalità protagoniste peccano comunque, strabordano, non possono fare a meno - pur rimproverandosi, pentendosi - di parlare. L'interno e l'esterno sono fratture. Pare difficile poter conoscersi davvero in un salotto-mondo dove tutto è una mascherata, anche i versi romantici dell'ospite Clemens Brentano paiono declamazioni di chi ama innanzitutto poter sentire la propria voce. C'è bisogno dell'esterno: per poter realizzarsi, per poter continuare a vivere senza implodere, per l'intima convinzione che ciò che si sente abbia da essere espresso; e poi un primo sentore di un'ultima impotenza, che verrà ripreso anche in Cassandra.
L'impotenza stessa del linguaggio e il più complicato rapporto tra intima verità ed espressione, sempre posteriore, già postuma di un momento passato. "Niente lo disgusta tanto quanto queste espressioni letterarie che non si presentano mai quando la nostra sofferenza è al culmine – allora siamo muti come qualsiasi animale – bensì dopo, e che non sono mai esenti da falsità e vanità", pensa Kleist. L'abisso più inoltrato non trova parole, un'impotenza di esprimersi che da un "imbavagliamento" sociale, concreto finisce per essere costitutiva, un ultimo, più profondo scacco. Ricorre allora il Guiscardo, l'opera incompiuta di Kleist. La sua stessa incompiutezza è espressione eloquente del dissidio del poeta. La peste che colpisce il personaggio di Guiscardo è lo stesso morbo di Kleist, la lotta che macchia d'impurità l'interno, ma che straborda anche nell'esterno: è la propria malattia, il proprio disordine di pericolose derive, quel piacere autodistruttivo, il proprio male che travolge tutto il resto e rimane un masochistico desiderio inesplicabile. Il conflitto è soccombere oppure, forzando lo stesso ordine del mondo, agendo su un popolo senza consenso, prendere Costantinopoli. Il finale non è mai scritto, un bivio mai risoluto. La tentazione di perire, quel pugnale che la stessa Günderrode si tiene sempre con sé, rigirato però come un giocattolo curioso tra gli altri invitati nel salotto (la mortificazione, costante del romanzo). La capitolazione è persino un punto caldo, covato, un'intima certezza, ed è veramente tale per chi legge, che conosce due date: Günderrode si suicida nel 1806, Kleist nel 1811.
L'impotenza è anche di genere. Günderrode è impotente ad esprimersi due volte: non soltanto in quanto poetessa del nuovo, come Kleist, nell'eterno confliggere di due generazioni, ma anche in quanto donna. Pubblica le sue poesie sotto pseudonimo maschile: deve, come dice Anita Raja (alias Elena Ferrante..), velarsi per svelarsi: mascherarsi in sembianze d'uomo per trovare voce, come la sorella di Kleist deve fare per aiutare, supportare il fratello. Günderrode è il primo segno nell'esplorazione wolfiana di una cancellazione dell'espressione femminile nel sistema patriarcale. Con Cassandra, meravigliosa opera, andrà ancora più a fondo, anzi, ne andrà alle origini. Anche Günderrode è fiera, consapevole delle sue capacità, in possesso del suo interno, ma anche lei ha bisogno dell'esterno perché il proprio fiume possa sfociare. La violenza della sua società è la violenza che la relega al domestico, al ridimensionamento della propria vocazione come un bisogno squisitamente privato, un semplice desiderio da soddisfare (Kleist, quasi invidioso - ma a torto - le farà notare che i suoi limiti sono una vantaggiosa protezione), e per giunta sotto falso nome. Wolf rende i suoi stessi personaggi androgini, sconfiggendo qualsiasi logica binaria di genere come veridica: tutti e due i poeti non si allineano con i modelli di genere. Non pienamente uomo o donna anche perché non accettano di contenersi, di mostrarsi sempre ragionevoli, accomodanti, incarnanti le norme sociali: Kleist non è nel polo di forza connotato storicamente (polo di forza illuminista, positivista), ha problemi, anzi, ad avere relazioni di successo con il mondo femminile, in confronto con il "normale" e "avvenente" Savigny; Günderrode ama, ma il suo amore è a sua volta senza saggio controllo, ovvero compiacenza del dominio maschile; non è abbastanza sottomessa, come l'ingenua e pia Gunde, che piace, è ambita, non è una "fair woman": il conflitto tra le richieste sociali esterne e l'indomabile fedeltà all'interno è anche nel continuo ripetersi della poetessa di essere superba.
Kleist e Günderrode, come Wolf, sono fuori dalla propria patria, fino a diventare l'impossibilità di un luogo esterno che sia proprio, che li accetti e li apprezzi per quello che sono: non solo un luogo intimo; ma un luogo dove trovare una propria piena realizzazione come voci in una società, come Wolf. Nessun luogo, da nessuna parte. Nessun approdo nemmeno per l'anima, niente armonia, nessuna patria sentita, anzi, è sentita quando ormai si è lontani. Subire, con un sorriso ironico, il costante scarto, in quanto umani. E dunque è un senso sperduto temporale: Günderrode venuta anzitempo, quel tempo troppo lungo prima che la donna potesse pubblicarsi con il proprio nome e senza essere surrogato dell'uomo; Kleist, antesignano del romanticismo (e neanche allineato davvero a tale corrente, eccedente anche in essa), Kleist che insegue un tempo ormai trascorso o non ancora venuto. Bellissima immagine è quella mitica - anche qui, dove la parte mitologica rispetto a Cassandra e Medea non è ancora protagonista - di Issione/Sisifo, il primo condannato a ruotare in eterno, come intrappolate, incastrato in un supplizio, nella volta celeste; e Sisifo che porta il suo masso su per la montagna, perché poi ricada - come dice Kleist - nell'abisso; e poi ancora, ancora. Immagini mitiche di una sofferenza senza fine, ritratti prima della fine auto-imposta, dell'ultima resa, con l'ombra funerea ad angolo.
Se Wordsworth diceva che la poesia è "lo spontaneo straripamento di potenti sensazioni", Kleist e Günderrode sono due autentici argini che si contengono a stento. Come Cassandra, son due voci imbavagliate, due voci che nel tentativo di una profonda fedeltà al proprio sentire non possono che essere dissonanti nel coro del mondo. Da una parte c'è l'ordine del mondo, dall'altra le irregolarità, le lancinanti disarmonie del proprio mondo interiore. Da una parte c'è il classico Goethe: colui che dopo Werther ripudia gli eccessi romantici per un culto estetico delle passioni controllate, ricercando proprio l'armonia di eredità greca; e colui che aveva testimoniato per sé stesso, tramite una miniera posseduta, di poter essere poeta, ma di poter guardare anche a un vantaggioso sostentamento economico. Dall'altra c'è Kleist, senza incarico, in aperto conflitto politico, e che non poteva rintracciare in sé alcuna pace, pur cercandola in lungo e in largo.
"Altri pretendono conoscere un modo di pensare in modo incruento. Armonia, moderazione, indulgenza. Kleist, per quanto strenuamente si sforzi, non penetra nella vita profonda di queste parole. Consumato da un desiderio struggente, mi muovo nella loro ombra".
Così scrive Wolf, abbracciando le loro aspre irregolarità con uno stile che passa da una frase all'altra dal punto di vista esterno della terza persona ai recessi dell'io in prima. Kleist, guardandosi dentro, non può riconoscere alcun rassicurante ordine, nessuna gloriosa fermezza, ma - anticipando Freud - il caos, l'abisso. Tuttavia la potestà quasi fiera è su se stessi, in balìa di un mondo dove niente delle proprie speranze, dei propri ideali sembra attecchire davvero. Non c'è stata corrispondenza tra gli ideali della rivoluzione francese, di uno Stato diverso e l'approdo al governo napoleonico. Non c'è accordo tra l'arbitrio statale, che segue il denaro e integra anche l'arte secondo tale convenienza, e un'arte estremamente gelosa della più profonda, incondizionata espressione di sé (echeggia, appunto, la situazione della Wolf). La verità è la verità emotiva, provata ogni giorno nella lotta con sé stessi, con i propri moti, le proprie aspirazioni e le proprie impotenze. La sfida è poter esprimere tutto questo: l'apoteosi artistica o il fallimento. Lo sa lo stesso Kleist wolfiano, quell'insoddisfazione che potrebbe farlo "perire di miseria terrena" è la sua parte migliore, e così anche Günderrode: "quel che m’uccide, partorirlo" (verso reale della poetessa). Tuttavia la società, lo sfondo sulle rive del Reno che circonda i due poeti, è il fare buon viso a cattivo gioco, i due poeti mimano il tacito imperativo sociale, ovvero contenersi, se non proprio tacere, silenziare la nota dissonante. Evitare imbarazzi, evitare la costante incomprensione, i momenti di incomunicabilità umana che i due hanno sentito anche troppe volte. L'esterno e l'interno sono due isole, forse. Ma è un gioco provato con tanti falli, le due personalità protagoniste peccano comunque, strabordano, non possono fare a meno - pur rimproverandosi, pentendosi - di parlare. L'interno e l'esterno sono fratture. Pare difficile poter conoscersi davvero in un salotto-mondo dove tutto è una mascherata, anche i versi romantici dell'ospite Clemens Brentano paiono declamazioni di chi ama innanzitutto poter sentire la propria voce. C'è bisogno dell'esterno: per poter realizzarsi, per poter continuare a vivere senza implodere, per l'intima convinzione che ciò che si sente abbia da essere espresso; e poi un primo sentore di un'ultima impotenza, che verrà ripreso anche in Cassandra.
L'impotenza stessa del linguaggio e il più complicato rapporto tra intima verità ed espressione, sempre posteriore, già postuma di un momento passato. "Niente lo disgusta tanto quanto queste espressioni letterarie che non si presentano mai quando la nostra sofferenza è al culmine – allora siamo muti come qualsiasi animale – bensì dopo, e che non sono mai esenti da falsità e vanità", pensa Kleist. L'abisso più inoltrato non trova parole, un'impotenza di esprimersi che da un "imbavagliamento" sociale, concreto finisce per essere costitutiva, un ultimo, più profondo scacco. Ricorre allora il Guiscardo, l'opera incompiuta di Kleist. La sua stessa incompiutezza è espressione eloquente del dissidio del poeta. La peste che colpisce il personaggio di Guiscardo è lo stesso morbo di Kleist, la lotta che macchia d'impurità l'interno, ma che straborda anche nell'esterno: è la propria malattia, il proprio disordine di pericolose derive, quel piacere autodistruttivo, il proprio male che travolge tutto il resto e rimane un masochistico desiderio inesplicabile. Il conflitto è soccombere oppure, forzando lo stesso ordine del mondo, agendo su un popolo senza consenso, prendere Costantinopoli. Il finale non è mai scritto, un bivio mai risoluto. La tentazione di perire, quel pugnale che la stessa Günderrode si tiene sempre con sé, rigirato però come un giocattolo curioso tra gli altri invitati nel salotto (la mortificazione, costante del romanzo). La capitolazione è persino un punto caldo, covato, un'intima certezza, ed è veramente tale per chi legge, che conosce due date: Günderrode si suicida nel 1806, Kleist nel 1811.
L'impotenza è anche di genere. Günderrode è impotente ad esprimersi due volte: non soltanto in quanto poetessa del nuovo, come Kleist, nell'eterno confliggere di due generazioni, ma anche in quanto donna. Pubblica le sue poesie sotto pseudonimo maschile: deve, come dice Anita Raja (alias Elena Ferrante..), velarsi per svelarsi: mascherarsi in sembianze d'uomo per trovare voce, come la sorella di Kleist deve fare per aiutare, supportare il fratello. Günderrode è il primo segno nell'esplorazione wolfiana di una cancellazione dell'espressione femminile nel sistema patriarcale. Con Cassandra, meravigliosa opera, andrà ancora più a fondo, anzi, ne andrà alle origini. Anche Günderrode è fiera, consapevole delle sue capacità, in possesso del suo interno, ma anche lei ha bisogno dell'esterno perché il proprio fiume possa sfociare. La violenza della sua società è la violenza che la relega al domestico, al ridimensionamento della propria vocazione come un bisogno squisitamente privato, un semplice desiderio da soddisfare (Kleist, quasi invidioso - ma a torto - le farà notare che i suoi limiti sono una vantaggiosa protezione), e per giunta sotto falso nome. Wolf rende i suoi stessi personaggi androgini, sconfiggendo qualsiasi logica binaria di genere come veridica: tutti e due i poeti non si allineano con i modelli di genere. Non pienamente uomo o donna anche perché non accettano di contenersi, di mostrarsi sempre ragionevoli, accomodanti, incarnanti le norme sociali: Kleist non è nel polo di forza connotato storicamente (polo di forza illuminista, positivista), ha problemi, anzi, ad avere relazioni di successo con il mondo femminile, in confronto con il "normale" e "avvenente" Savigny; Günderrode ama, ma il suo amore è a sua volta senza saggio controllo, ovvero compiacenza del dominio maschile; non è abbastanza sottomessa, come l'ingenua e pia Gunde, che piace, è ambita, non è una "fair woman": il conflitto tra le richieste sociali esterne e l'indomabile fedeltà all'interno è anche nel continuo ripetersi della poetessa di essere superba.
Kleist e Günderrode, come Wolf, sono fuori dalla propria patria, fino a diventare l'impossibilità di un luogo esterno che sia proprio, che li accetti e li apprezzi per quello che sono: non solo un luogo intimo; ma un luogo dove trovare una propria piena realizzazione come voci in una società, come Wolf. Nessun luogo, da nessuna parte. Nessun approdo nemmeno per l'anima, niente armonia, nessuna patria sentita, anzi, è sentita quando ormai si è lontani. Subire, con un sorriso ironico, il costante scarto, in quanto umani. E dunque è un senso sperduto temporale: Günderrode venuta anzitempo, quel tempo troppo lungo prima che la donna potesse pubblicarsi con il proprio nome e senza essere surrogato dell'uomo; Kleist, antesignano del romanticismo (e neanche allineato davvero a tale corrente, eccedente anche in essa), Kleist che insegue un tempo ormai trascorso o non ancora venuto. Bellissima immagine è quella mitica - anche qui, dove la parte mitologica rispetto a Cassandra e Medea non è ancora protagonista - di Issione/Sisifo, il primo condannato a ruotare in eterno, come intrappolate, incastrato in un supplizio, nella volta celeste; e Sisifo che porta il suo masso su per la montagna, perché poi ricada - come dice Kleist - nell'abisso; e poi ancora, ancora. Immagini mitiche di una sofferenza senza fine, ritratti prima della fine auto-imposta, dell'ultima resa, con l'ombra funerea ad angolo.