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caterinagberti 's review for:
L'anniversario
by Andrea Bajani
sad
slow-paced
Plot or Character Driven:
N/A
Strong character development:
No
Loveable characters:
No
Diverse cast of characters:
Yes
Flaws of characters a main focus:
Yes
Il patriarcato si piange addosso forte in questo libro.
É scritto "bene"? Sì.
Anche quando si inventa espressioni brutte come il molto citato "ceffone di vita", o - per me ben peggiore - "sbrego di realtà", lo fa con la sensibilità per il linguaggio di uno che sa che in quel posto, di quella frase, ci va un punto di squilibrio.
Mi è piaciuto? No.
Non vedevo l'ora di finirlo.
Anche arrivata alla fine, non so dire se sia autobiografia, autofiction, o fiction.
So però che un libro di 127 pagine che inizia finalmente a dire qualcosa di vagamente umano a pagina 98 è lo specchio di una vita davvero triste, vera o inventata che essa sia.
Una tristezza che, apparentemente, neanche il "dispositivo del romanzo" (cit.) riesce a rendere interessante.
Tornando alla mia affermazione iniziale, che sono sicura potrebbe far inarcare qualche sopracciglio, mi spiegherò brevemente, se riesco: in questo libro ci sono un padre violento e probabilmente diagnosticabile con qualche disturbo della personalità e una madre che sembra aver scelto, anche prima di incontrare questo carnefice, la totale apatia come antidoto alle sofferenze della vita. Del primo, però, anche se non si risparmiano le critiche, viene affermato in più punti che "quello era il suo modo di chiedere amore". Mentre sulla seconda si spendono giudizi moralmente terribili, arrivando persino a sostenere che "non avesse veramente paura del padre".
Tutto questo dalla bocca di un narratore, vero o fittizio che sia, che sa dare corpo e dignità di pagina a una sola donna nella narrazione (nonostante nel suo universo esistano una madre, una sorella, una moglie e più tardi una madre di suo figlio): una vecchia psicologa o psichiatra sulle cui pratiche terapeutiche ci sarebbe da aprire un altro bel tema.
Non voglio dare al narratore, o a Bajani, necessariamente del maschilista, ma la scelta di raccontare l'intera vicenda solo attraverso i "sintomi", senza mai indagare la patologia - e prima che qualcuno si stupisca di questa affermazione vi chiederei di contare quante volte viene detta una cosa come "questa cosa forse non è successa, quindi invece di raccontarvela ve la dico in fretta e male" - fa il paio con la profondità psicologica della voce narrante, che a parte farsi delle domande sui co-protagonisti che si farebbe chiunque, non dice altro tranne che aveva costantemente problemi intestinali, per me esprimendo (in modo molto curato e letterario) alla perfezione il concetto di "mascolinità fragile" che sembra essere diventato ultimamente il volto "accettabile" - quello che va preso in considerazione, e con del riguardo! - del patriarcato.
É scritto "bene"? Sì.
Anche quando si inventa espressioni brutte come il molto citato "ceffone di vita", o - per me ben peggiore - "sbrego di realtà", lo fa con la sensibilità per il linguaggio di uno che sa che in quel posto, di quella frase, ci va un punto di squilibrio.
Mi è piaciuto? No.
Non vedevo l'ora di finirlo.
Anche arrivata alla fine, non so dire se sia autobiografia, autofiction, o fiction.
So però che un libro di 127 pagine che inizia finalmente a dire qualcosa di vagamente umano a pagina 98 è lo specchio di una vita davvero triste, vera o inventata che essa sia.
Una tristezza che, apparentemente, neanche il "dispositivo del romanzo" (cit.) riesce a rendere interessante.
Tornando alla mia affermazione iniziale, che sono sicura potrebbe far inarcare qualche sopracciglio, mi spiegherò brevemente, se riesco: in questo libro ci sono un padre violento e probabilmente diagnosticabile con qualche disturbo della personalità e una madre che sembra aver scelto, anche prima di incontrare questo carnefice, la totale apatia come antidoto alle sofferenze della vita. Del primo, però, anche se non si risparmiano le critiche, viene affermato in più punti che "quello era il suo modo di chiedere amore". Mentre sulla seconda si spendono giudizi moralmente terribili, arrivando persino a sostenere che "non avesse veramente paura del padre".
Tutto questo dalla bocca di un narratore, vero o fittizio che sia, che sa dare corpo e dignità di pagina a una sola donna nella narrazione (nonostante nel suo universo esistano una madre, una sorella, una moglie e più tardi una madre di suo figlio): una vecchia psicologa o psichiatra sulle cui pratiche terapeutiche ci sarebbe da aprire un altro bel tema.
Non voglio dare al narratore, o a Bajani, necessariamente del maschilista, ma la scelta di raccontare l'intera vicenda solo attraverso i "sintomi", senza mai indagare la patologia - e prima che qualcuno si stupisca di questa affermazione vi chiederei di contare quante volte viene detta una cosa come "questa cosa forse non è successa, quindi invece di raccontarvela ve la dico in fretta e male" - fa il paio con la profondità psicologica della voce narrante, che a parte farsi delle domande sui co-protagonisti che si farebbe chiunque, non dice altro tranne che aveva costantemente problemi intestinali, per me esprimendo (in modo molto curato e letterario) alla perfezione il concetto di "mascolinità fragile" che sembra essere diventato ultimamente il volto "accettabile" - quello che va preso in considerazione, e con del riguardo! - del patriarcato.