A review by ludovicaciasullo
Venivamo tutte per mare by Julie Otsuka

4.0

Sono rimasta piacevolmente sorpresa da questa lettura. Francamente non avevo molte aspettative, e invece si è rivelato davvero un buon libro.

Innanzitutto, direi che non si tratta di un romanzo, perché non ha personaggi né un arco narrativo. Non è un poema, perché è scritto in prosa, anche se è estremamente lirico. Credo che sia un po' una sfida al nostro modo di caratterizzare i generi, a me ha fatto pensare all'epica. A differenza dell'epica però, questa storia non ha eroi. In comune con l'epica, ha il fatto di essere fondativa, collettiva, di raccontare qualcosa che ha segnato un gruppo di persone e che non viene tramandato in maniera "ufficiale".

La storia raccontata comincia su una nave, su cui troviamo un gruppo di donne che stanno andando dal Giappone alla California. Ad aspettarle, troveranno i loro mariti: uomini giapponesi immigrati in America da qualche tempo, che si sono rivolti ad agenzie matrimoniali nel loro Paese d'origine per trovare moglie. Attratte con la promessa di una vita lussuosa, le nostre protagoniste sono spaurite, ma anche eccitate, all'idea di quello che l'aspetta. La prima persona plurale (in cui tutto il romanzo è raccontato) ci arriva come il brusio del ponte: i pettegolezzi, i flirt con i marinai, gli scambi di consigli, la nostalgia di casa. Questo tono corale verrà mantenuto fino alla fine: il libro è la storia di tutte loro, e di nessuna in particolare.

Arrivate in California, i mariti non sono affatto come se li aspettavano: sono più bassi, più violenti, e soprattutto più poveri. Alcune sono fortunate, e trovano sintonia con l'uomo che è capitato loro in sorte, altre non lo sono affatto, e vengono violentate sin dalla prima notte di nozze. A tutte, comunque, si para davanti un destino di duro lavoro agricolo. Proprio come nelle pagine de I Nomadi di Steinback, sentiamo storie di braccianti, perennemente in transito da un campo all'altro, in condizioni abitative e lavorative disumane. Mi ha colpito molto questo inaspettato "ponte" fra due letture, una prospettiva lì giornalista che qui diventa assolutamente personale, intima.

In una continua tensione fra integrazione e custodie delle proprie radici, le nostre protagoniste soffrono, lottano, accumulano qualche piccola soddisfazione, hanno i destini più disparati. Alcune lavorano come domestiche a casa di donne americane, altre come prostitute. La cosa bellissima è che la Otsuka riesce a tessere un'immagine collettiva, corale, in cui pure riusciamo a scorgere delle individualità, dei percorsi personali assolutamente eterogenei dentro ad una storia comune.

Quando le nostre protagoniste hanno dei figli, li osservano dimenticarsi le parole in giapponese e integrarsi nella società americana: sono bellissime pagine che mostrano la differenza abissale che si crea dopo una sola generazione. In quegli anni però, gli Stati Uniti e il Giappone sono in guerra, e ai tanti problemi si aggiunge anche un profondo sospetto. La stampa, e (più o meno tacitamente) anche il loro vicini, li accusano di essere informatori per conto del Giappone, sabotatori della terra che li ha così "generosamente" accolti. Il clima di sospetto culmina in una vera e propria deportazione (internment).

L'ultimo capitolo mi ha fatto venire in mente il famoso sermone "Prima vennero": tutti si chiedono dove sono finiti "i giapponesi", e solo qualcuno accenna a chiedersi cosa si sarebbe potuto fare per evitarlo. Pagine secondo me stupende sul ruolo della comunità, sul senso che questa parola ha, su cosa significa appartenere.

Dal punto di vista formale secondo me la scelta della prima persona plurale è vincente: non mi era mai capitato prima di incontrare una cosa del genere e trovo che sia perfettamente funzionale a veicolare l'idea che questa è una storia collettiva, corale, in cui tutti sono protagonisti e nessuno lo è, in cui le vicende personali, per quanto diversissime, fanno tutte parte di una vicenda comune. al di là di questo poi la lingua è molto musicale, poetica. Intere frasi si ripetono più volte con la stessa struttura, creando un ritmo che assolutamente coinvolgente, che colpisce veramente come un pugno proprio in virtù della ripetitività, della musicalità. ("That night our new husbands took us quickly. They took us calmly. They took us gently, but firmly, and without saying a word. They assumed we were the virgins the matchmakers had promised them we were and they took us with exquisite care. Now let me know if it hurts. They took us flat on our backs on the bare floor of the Minute Motel. They took us downtown, in second-rate rooms at the Kumamoto Inn. They took us in the best hotels in San Francisco that a yellow man could set foot in at the time. The Kinokuniya Hotel. The Mikado. The Hotel Ogawa. They took us for granted and assumed we would do for them whatever it was we were told. Please turn toward the wall and drop down on your hands and knees (...) They took us violently, with their fists, whenever we tried to resist. They took us even though we bit them. They took us even though we hit them (...). They took us cautiously, as though they were afraid we might break. You’re so small. They took us coldly but knowledgeably — In 20 seconds you will lose all control — and we knew there had been many others before us. They took us as we stared up blankly at the ceiling and waited for it to be over, not realizing that it would not be over for years. ). Per questo credo che ascoltare l'audiolibrio sia stata effettivamente un'ottima opportunità di godere appieno dell'aspetto "ritmico" del libro.

I temi affrontati sono tanti, per ciascuno di essi Otsuka riesce a rendere giustizia a tante esperienze diverse senza perdere di vista la dimensione collettiva. Certo, non ci sono personaggi che evolvono nel corso della storia, non ci sono dialoghi, non ci sono introspezioni particolarmente approfondite. Ma secondo me questi non sono difetti: questo è un libro che vuole raccontare delle vite dentro a un libro di storia, e lo fa magistralmente.