A review by capodoglio
In the Country of Last Things by Paul Auster

4.0

“Every Jew, he said, believes that he belongs to the last generation of Jews” (112).

Il paese delle ultime cose è una città senza nome, la cui popolazione vive in condizioni spaventose. Il lavoro produttivo non esiste più, sostituito da una disperata economia del riciclo. Ne deriva una carenza cronica di cibo, vestiario, abitazioni. La città si ciba di se stessa, letteralmente. Il crimine è la norma e non viene punito da un governo preoccupato solamente della raccolta di rifiuti umani e cadaveri, utilizzati come combustibile―l’unica fonte di energia disponibile nella città, per i pochi privilegiati che se la possono permettere. La povertà dilagante non esclude infatti sacche di benessere e disuguaglianze sociali. La coesione sociale è implosa, lasciando posto alla predazione sistematica (qualcuno citava a questo proposito il Leviatano di Hobbes, e l’intuizione è meno ovvia di quanto potrebbe sembrare considerando che anche Auster ha scritto il suo Leviathan). La città è politicamente indipendente, e nulla nel testo suggerisce che l’attuale situazione sia stata provocata da cause esterne, come la guerra. Gli indizi lasciano invece supporre che sia decaduta progressivamente, con l'avvallo di governi impotenti o semplicemente disinteressati a fermare il collasso.

Il libro è un romanzo epistolare scritto da Anna Blume, giovane ebrea alla ricerca del fratello maggiore, giornalista, incaricato di svolgere un reportage ma irreperibile da mesi. Dopo le prime 40 terribili (e per me fulminanti) pagine introduttive, Anna inizia quindi a raccontare le proprie vicende nella città. Attraverso di lei scopriamo che perfino in uno scenario così disumano sono possibili altruismo, gentilezza e compassione, perfino sesso e amore; scopriamo che anche dove sembra impossibile c’è chi preserva quanto ci rende umani.
L’urgenza della sua testimonianza ne ricorda altre, reali e non fittizie; innanzitutto quella di un’altra, ancor più giovane Anna, anche lei ebrea. Il punto di vista femminile peraltro non è secondario, e sarei curioso di sapere cosa ne pensano le lettrici. Auster ha dedicato il romanzo alla moglie Siri Hustvedt, che in un’intervista ha rivelato di averlo sempre considerato il ‘suo’ romanzo, tra tutti quelli di Paul. In the Country of Last Things, suo primo romanzo dopo la New York Trilogy, è generalmente ritenuto estraneo al classico ‘canone’, ma contiene in verità molte caratteristiche tipiche del suo stile: la prosa, l'uso della narrazione in prima persona, il tono diaristico, le divagazioni non sempre cronologiche, e per finire la ‘musica del caso’: che è causa di tutte le vicende di Anna, degli incontri con gli altri personaggi e delle svolte nella trama.
Certo, l’ambientazione imprecisa e quasi astratta può sembrare insolita; ma non lo è se consideriamo che la stessa New York della Trilogia era un luogo altrettanto idealizzato.

A questo proposito, sono caduto nella tentazione di chiedermi quale città potesse nascondersi dietro gli scarsi indizi forniti: Anna parla di un porto a sud e di vaste aree a nord, ad ovest delle quali si estendono distese coltivate, poi il deserto ed infine ‘un altro oceano’. La Grande Mela è l'ipotesi più probabile (e mi ha riportato alla mente lo splendido DMZ di Brain Wood e Riccardo Burchielli, una distopia che ritrae una Manhattan neutrale nel mezzo di una nuova guerra civile statunitense). Ma il punto è proprio l'indeterminatezza di questa città senza nome.
Il fatto che si tratti di una città distingue questo libro dalla catastrofe planetaria di The Road di McCarthy, cui è precedente di vent'anni, e lo rende a mio avviso più interessante. Ma in ultima analisi la differenza principale tra i due riguarda i riferimenti letterari. McCarthy si rifà esplicitamente alla Bibbia, anche a livello linguistico; dopotutto il concetto stesso di storia teleologica è ebraico/biblico. Auster invece ha un approccio da ebreo laico, più legato all'esperienza ed alla testimonianza di altri ebrei (durante la Shoah, ma anche sotto lo stalinismo) che non alla Bibbia. Lui paga qui un tributo anzitutto a Kafka: il paese delle ultime cose è effettivamente kafkiano nella misura in cui mantiene un apparato municipale distante, enigmatico, opprimente, intento unicamente all'autopreservazione. Ci vedo anche la lezione di Burroughs e di scrittori più giovani, come Kathy Acker.

Auster dipinge una situazione estrema ma non inverosimile, e non credo sia necessario sforzare troppo l'immaginazione per trovare echi di Stalingrado o della Polonia sotto la legge marziale, o ancora degli scenari di guerra sub-sahariani. L'autore stesso ha rivelato che quello della protagonista è in realtà un viaggio attraverso il ventesimo secolo. La testimonianza di Anna, indirizzata idealmente ad un suo amico d’infanzia nella disperata speranza che possa leggerla, è quindi un monito per tutti. Ed è consolante riscoprire che la frase con cui si apre il romanzo, “These are the last things, she wrote. One by one they disappear and never come back”, contiene quel piccolo inciso, quel she wrote, che sembra suggerire una coscienza esterna: qualcuno che legge la lettera di Anna.

p.s.: pubblicato nel 1987, nel bel mezzo dell'era Reagan-Tatcher, ItCoLT è probabilmente uno dei romanzi più politici di Auster, assieme al già citato Leviathan.