A review by capodoglio
Giappone by AA. VV.

4.0

Recentemente ho assistito al lancio del numero di Passenger dedicato a [b:Venezia|201839034|Venezia|Gianfranco Bettin|https://i.gr-assets.com/images/S/compressed.photo.goodreads.com/books/1699451331l/201839034._SX50_.jpg|206859890], un evento ospitato da Ca' Foscari, la mia alma mater: la presentazione si è svolta nell'aula in cui mi sono laureato ed era presieduta dalla mia ex-relatrice, ora vicedirettrice di dipartimento.

L'evento mi è tornato alla mente per un paio di ragioni, leggendo questo numero sul Giappone.
La prima è un'affermazione pronunciata dal direttore della collana nel corso dell'introduzione: "The Passenger è una via di mezzo fra un libro e una rivista". La seconda, forse un corollario, è che ogni numero di questa collana/rivista fotografa un momento preciso nella storia del luogo in questione. Durante la presentazione del numero su Venezia si è parlato a lungo di spopolamento programmatico e turistificazione, autogestione cittadina (come nel caso di Poveglia per tutti) e comunità bengalese, di abitanti che Venezia la scelgono e di Venezia che vorrebbe scegliersi gli abitanti.

Qual è quindi il bilancio del Giappone delineato da questa raccolta?
Il quadro generale è talmente noto da scivolare nel cliché: un paese densamente popolato (la cui capitale Tokyo rimane la più grande megalopoli al mondo), sostanzialmente omogeneo etnicamente, culturalmente impenetrabile, attaccato contemporaneamente alle tradizioni e all'avanguardia.
Fra le righe dei saggi qui raccolti si scopre una potenza mondiale in progressivo invecchiamento, in deflazione ormai cronica, tutt'ora segnata dalla crisi della bolla immobiliare scoppiata nel 1991. Un paese che, come tutti quelli nord globale, prosegue di fatto per inerzia.

Un paese in cui le vittime del catastrofico tsunami del 2011 ritornano fra i vivi, con apparizioni e possessioni più o meno tormentate, svelando così "la vera religione del Giappone: il culto dei morti". In cui lo stesso shintoismo, religione autoctona e di certo priva dell'afflato colonialista che qui invece ben conosciamo, è sbandierato da una setta ultrareazionaria, militarista e patriarcale, che mira alla restaurazione del nazionalismo imperiale pre-bellico. Che però fatica ad attecchire perché, ci rassicura il saggio successivo, il Giappone è salvaguardato da un forte pace sociale e sostanzialmente immune al populismo fanatico che, di nuovo, in Occidente è invece ben noto. Un paese in cui il sumo, sunto di antiche tradizioni e denso di significati simbolici, è ancora seguitissimo ma spesso appannaggio di campioni che, nonostante gli pseudonimi adottati, vengono da Ulan Bator ⸺ o qualche altro angolo della sterminata landa che si stende fra il mar del Giappone e il mar Caspio. Un paese che, con tutta probabilità, è il più grande mercato discografico del pianeta, in grado di alimentare autonomamente un fenomeno come quello del j-pop, ma che conta anche innumerevoli appassionati di blues; il blues autentico, quello del Delta, non quello asettico delle jam bands. Un paese in cui l'onda lunga della deflazione e una cultura tossica del lavoro portano al fenomeno degli evaporati: persone che un giorno, di punto in bianco, spariscono, per non dover fare i conti con creditori che spesso hanno l'aspetto e i modi della yakuza, o anche solo per non dover affrontare il disonore del fallimento davanti alla famiglia.

Inevitabilmente una raccolta di saggi di questo tipo sarà di qualità disomogenea.
Nomi di spicco quali Yoshimoto Banana e Murakami Ryū firmano due articoli invero piuttosto anonimi; raccontano rispettivamente di un trasloco avvenuto senza nemmeno cambiare quartiere e della crescente inappetenza sessuale dei nipponici. L'inevitabile pezzo sugli Ainu di Cesare Alemanni è poco incisivo; al contrario, Giorgio Amitrano analizza puntualmente il ritratto a volte sorprendente, e frequentemente rivelatore, dell'istituzione familiare restituita dal cinema giapponese (niente anime, quindi, e meno male). Nell'approfondito saggio sul sumo di Brian Phillips è incastonata la vicenda del seppuku di Mishima Yukio. Amanda Petrusich si perde nelle strade di Tokyo alla ricerca dei migliori bluesmen. E Léna Mauger si affanna per scovare, fra i quartieri dormitorio e le terme sulle pendici del Fujiyama, chi ha scelto di sparire nella notte.

Anche le rubriche sono per lo più interessanti, sebbene l'usuale playlist, prevedibilmente curata da Furukawa Hideo, non lascia il segno; ma è vero d'altronde che io sono attualmente in preda a una fissazione per il jazz giapponese (consiglio a riguardo di iniziare dalle antologie J Jazz della BBE e da lì partire alla scoperta dell'ennesimo rabbit hole... sappiatemi dire).
In questi saggi si incontrano del resto una miriade di termini nipponici che io ho qui risparmiato, e che per quanto necessari, rallentano a volte la lettura. Si incontrano, per fortuna, pochi cliché, o forse molti, ma giustamente contestualizzati. E dulcis in fundo, si incontra il woshuretto. Cos'è? Scopritelo! (indizio: come molte altre cose, è stato inventato altrove, ma in Giappone ha trovato il satori).

post scriptum perplesso:
The Passenger fa parte di un più generale progetto da parte di Iperborea di allontanarsi da quello che la rende, beh, Iperborea. Ovvero: il nord Europa. Ben venga l'allargamento ai paesi baltici, ma pubblicare autori francesi, canadesi e tedeschi...? Proprio questo volume sul Giappone, dopo i Passengers su Islanda e Olanda, è stato una delle prime spie di questa deriva vattelapeschista. Ci aspetta un Risiko dell'editoria italiana?